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Home | Il blog di Giunti EDU | CHE COSA SONO I BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI?
mani di un bambino colorate con tempere di diversi colori
BES è l'acronimo di "Bisogni Educativi Speciali". Una conoscenza approfondita dei BES e della tematica dell'inclusione fa parte del bagaglio professionale di ogni docente.

Negli ultimi anni si è assistito a un costante aumento sia dei BES in sé, sia dell'attenzione rivolta alle strategie di inclusione, destando crescente attenzione nel mondo dell'educazione.

I BES comprendono una serie di condizioni e situazioni che richiedono un supporto educativo specifico per garantire a tutti gli studenti le stesse opportunità di apprendimento.

Per i BES sono state individuate tre grandi aree: disabilità, disturbi evolutivi specifici e svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale.
In ogni scuola e in ogni classe ci sono bambini con esigenze specifiche e bisogni particolari.

 

Serena è sempre sorridente e allegra, ma si rabbuia quando la maestra le chiede di leggere: per lei le lettere sono “come piccole formiche che scappano via dal foglio”.

 Jamal è appena arrivato in Italia da un Paese del Medio Oriente, ancora non parla una parola di italiano e, seduto in un banco in prima fila, si guarda intorno spaurito.

Giampaolo è italiano, ma ancora non riesce a verbalizzare correttamente alcune parole e ha evidenti difficoltà nell’espressione linguistica.


Le insegnanti non sanno più come “arginare” i comportamenti di Ettore : resiste seduto al banco solo pochi minuti, poi deve alzarsi e inizia a disturbare i compagni, interrompendo di continuo la lezione con commenti inappropriati.

Per i genitori di Mara ogni mattina è una lotta per farla andare a scuola: non vuole entrare in classe e chiede a uno dei genitori di aspettarla sulle scale nel caso si sentisse male e volesse tornare a casa.

Testi tratti daI BES come e cosa fare di Raffaele Ciambrone e Giuseppe Fusacchia. Disponibile online un estratto

.


Che cosa accomuna Serena, Jamal, Giampaolo, Ettore e Mara?

Evidentemente hanno tutti delle difficoltà e vivono la scuola come un ambiente ostile e faticoso. Mostrano tutti dei bisogni specifici a cui gli insegnanti e la scuola devono rispondere in modo differenziato, individuando strategie idonee alle caratteristiche di ognuno.

Questi bambini si possono ricomprendere nel concetto di BES (Bisogni Educativi Speciali), termine che indica quei bisogni e necessità che ogni bambino può incontrare durante il suo percorso scolastico, tutte quelle difficoltà che ne ostacolano o impediscono l’adeguato apprendimento e che quindi necessitano di un intervento specifico per poter essere compensate o risolte.

 

QUALI SONO I BES?

immagine grafica che rappresenta i bisogni educativi speciali come insiemi


















Dopo la Legge 170/2010 sui DSA sono state emanate delle disposizioni che hanno cercato di declinare cosa e come fare per accogliere i bisogni educativi speciali di un numero ancora più ampio di difficoltà in un progetto di inclusione e successo formativo.

Infatti, la Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 tenta di fornire una risposta alle esigenze dei bambini con bisogni educativi speciali, individuandone le caratteristiche ed evidenziando i passaggi necessari a garantire loro l’inclusione scolastica e il massimo successo formativo possibile, estendendo perciò a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento.


 

Nella Direttiva sono individuate tre grandi aree:

1.Disabilità;

2.Disturbi evolutivi specifici;

3.Svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale.


QUANTI SONO GLI ALUNNI CON BES?

 

Gli alunni con bisogni educativi speciali sono circa un milione. Oltre a quelli con disabilità, si tratta di alunni con disturbi generalizzati dello sviluppo, disturbi specifici dell’apprendimento, del linguaggio, ritardo psicomotorio, border cognitivi, sindrome da deficit di attenzione e iperattività.

Il Funzionamento Intellettivo Limite (FIL) può invece essere considerato un caso di confine, che in taluni soggetti sconfina nella disabilità, in altri si può risolvere indirizzando i ragazzi verso adeguati percorsi scolastici. Si tratta di soggetti con un quoziente intellettivo sotto la media, ma non certificabile ai sensi della Legge 104/92: il QI (Quoziente Intellettivo) oscilla fra i 71 e gli 84 punti, con gli inevitabili paradossi delle situazioni a ridosso di tali estremi.

Questi soggetti non presentano elementi di specificità, rendendo difficile stimarne la presenza fra la popolazione scolastica. Si tratta comunque di centinaia di migliaia di studenti. A queste problematiche se ne aggiungono poi di diversissime (valga come esempio il Disturbo dello Spettro autistico lieve, cioè senza ritardo cognitivo e/o a medio-alto livello di funzionalità), che hanno in comune la possibilità di compromettere il percorso scolastico ma che non sono certificabili e per questo non danno diritto a nessun tipo di risorsa (economica o in termini di insegnante di sostegno).

La Legge 170/2010 ha rappresentato però un punto di svolta: la presa in carico dell’alunno con BES non è aperta al solo insegnante per il sostegno, ma a ciascun docente curricolare e a tutto il team di colleghi coinvolti. Per quanto riguarda la “terza area” dei BES, ossia il disagio socioeconomico, linguistico e culturale, non è possibile fornire dati numerici.

DALLE CLASSI DIFFERENZIALI AI BES

bambine e bambini seduti che condividono uno spazio educativo

 














Negli ultimi anni abbiamo assistito al passaggio da una logica di non esclusione a una di inclusione dei bambini con disabilità. Progressivamente l’inclusione si è ampliata anche ai bisogni educativi e alle difficoltà, passando da classi ghettizzanti per “i diversi” a classi inclusive per tutti.

Le leggi hanno un impatto sulle strategie pedagogiche e questo porta in primo piano le intenzionalità educative del legislatore. Le ricadute in termini di metodologie didattiche e strategie adottate dai docenti sono notevoli.

Il percorso verso l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità iniziò nel 1971, quando si stabilì che quelli meno gravi fossero inseriti nelle classi comuni (Legge 20 marzo 1971, n. 118). Il dibattito che ne seguì – da una parte quanti erano favorevoli all’integrazione dei “minorati” meno gravi, dall’altra i sostenitori di  un’inclusione totale –, portò all’istituzione di un’apposita Commissione ministeriale, presieduta dalla Senatrice Franca Falcucci.

La Relazione finale prodotta dalla Commissione fu la base per la successiva normativa: la Legge 517/1977 prescrisse l’attuazione, nella scuola elementare e media, di «forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps con la prestazione di insegnanti specializzati» ed estese anche ad alunni con altre disabilità le norme sulla frequenza scolastica previste dalla  118Legge del 1971.

Nel 1992 è infine stata approvata la “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, che è ancora oggi il culmine del percorso a tutela dei diritti delle persone con disabilità. In questo quadro, ben noto a quanti si occupano di inclusione, vanno considerate le condizioni di svantaggio e le difficoltà di apprendimento, per le quali non furono inizialmente previste classi “speciali” (in istituti scolastici dedicati), ma classi “differenziali”, associate alle scuole comuni.

«Le classi differenziali – spiega la Circolare Ministeriale n. 1771/12 dell’11 marzo 1953 – non sono istituti scolastici a sé stanti, ma funzionano presso le comuni scuole elementari e accolgono gli alunni nervosi, tardivi, instabili, i quali rivelano l’inadattabilità alla disciplina comune e ai normali metodi e ritmi d’insegnamento e possono raggiungere un livello migliore solo se l’insegnamento viene a essi impartito con modi e forme particolari».

La Legge che istituì la scuola media unica, obbligatoria e gratuita (n.1859/1962) prevedeva l’istituzione di classi differenziali per gli alunni con difficoltà di apprendimento e “disadattati scolastici”. L’attenzione per questi alunni continuò a essere scarsa, riservando loro addirittura gli insegnanti meno preparati: «Ai maestri che non abbiano una preparazione specifica», si legge nella Circolare Ministeriale del 9 luglio 1962, «possono essere affidate soltanto le classi differenziali…».

Nel 1967 (D.P.R. n. 1518 del 22 dicembre) fu chiarita la ripartizione:

  • Nelle scuole speciali furono indirizzati «i soggetti che presentano anomalie o anormalità somato-psichiche che non consentono la regolare frequenza nelle scuole comuni e che abbisognano di particolare trattamento e assistenza medico-didattica»;

  • Le classi differenziali accolsero invece «i soggetti ipodotati intellettuali non gravi, disadattati ambientali, o soggetti con anomalie del comportamento, per i quali possa prevedersi il reinserimento nella scuola comune».


Nel 1977 (Legge 517/77) le classi differenziali furono abolite nella scuola media, ma trascorsero ancora quindici anni perché lo fossero anche in quella elementare (art. 43, Legge 104/92). All’origine della decisione ci furono però soprattutto questioni economiche, al punto che nessuna misura di supporto venne prevista per questi alunni, che semplicemente confluirono nelle classi comuni.

A fronte di una popolazione di alunni con maggiori difficoltà di apprendimento o problemi nella condotta, che tutte le indagini sociologiche e psicopedagogiche testimoniano essere più esposta ad abbandono o insuccesso scolastico, non sono state previste misure strutturali.


L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI BES

 

immagine che rappresenta omini stilizzati e colorati che insieme formano un cuore

Il concetto di Special Educational Needs, ovvero di “bisogni educativi speciali”, compare nel 1978, in Gran Bretagna, l’intento originario era superare la distinzione tra alunni “handicappati” e “non handicappati”, sostenendo la maggior complessità di un approccio che consideri non solo la menomazione, ma soprattutto le potenzialità positive. Poco più di quindici anni dopo, con la Dichiarazione di Salamanca, il concetto di Special Educational Needs viene assunto come definizione, a livello internazionale, ed è attualmente utilizzato nelle rilevazioni dell’OCSE1 per indicare quell’ambito educativo che ricomprende la disabilità, le difficoltà di apprendimento e lo svantaggio.

In Italia, il 1977 è l’anno della Legge 517, con la quale viene sancito il diritto alla piena integrazione di tutti gli alunni con disabilità, anche dei più gravi.Il 1992 è l’anno del varo della Legge 104, la Legge quadro per i diritti delle persone con disabilità; nel 1994, a Salamanca, viene sottoscritta la Dichiarazione dell’UNESCO con la quale il concetto di Bisogni Educativi Speciali viene assunto a livello internazionale per indicare l’area della disabilità, delle difficoltà d’apprendimento e dello svantaggio.

Nel 2012 viene emanata in Italia la Direttiva sui Bisogni Educativi Speciali, quale completamento del lungo processo, iniziato oltre 40 anni prima, volto alla tutela del diritto allo studio di tutti gli alunni.


QUANDO È DIFFICILE APPRENDERE

In ogni classe le difficoltà che possono manifestarsi nel processo di apprendimento sono varie e l’insegnante può trovare situazioni anche molto diverse tra loro, non tutte identificabili come “disturbo” e non tutte distinguibili in modo netto.

I bambini e i ragazzi possono avere difficoltà ad apprendere per un disturbo specifico, come effetto secondario ad altri tipi di difficoltà (ansia, disturbi linguistici, problemi emotivi) o a situazioni emotivamente stressanti, oppure, ancora, in seguito a difficoltà linguistiche in caso di recente immigrazione o di contesti socioculturali svantaggiati.


DIFFICOLTÀ E DISTURBI DI APPRENDIMENTO

 

bambina con dei libri davanti. si mette una mano sulla fronte a indicare bisogno di aiuto

 

Quindi l’insegnante può trovarsi di fronte bambini con certificazione o diagnosi di DSA ; altri che manifestano una difficoltà reale e grave, che compromette in maniera seria gli apprendimenti, ma che non hanno ricevuto una diagnosi o una certificazione; altri ancora che presentano difficoltà ordinarie, che possono rientrare in una situazione di normale andamento evolutivo.

  • La situazione relativa alla presenza di ordinarie difficoltà si verifica con frequenza e trasversalmente. Può cioè interessare tutti i discenti, anche coloro che hanno risultati brillanti ma che, in un certo periodo, possono attraversare momenti di difficoltà. Sta all’esperienza del singolo docente avvertire se la flessione nel rendimento sia dovuta a cause contingenti e transitorie oppure se ciò non sia il segnale di un disagio più profondo e duraturo, che potrebbe preludere a momenti di criticità più serie. A parte tali situazioni – che vanno comunque sempre considerate con la dovuta attenzione – siamo nell’ambito dell’ordinaria difficoltà, che non richiede la formalizzazione di un percorso individualizzato.

  • La situazione legata ai disturbi di apprendimento presenta pari elementi di evidenza, in quanto supportati da una documentazione clinica, una diagnosi o una certificazione. Se è presente solo la diagnosi, si rimanda in ogni caso alla discrezionalità dei Consigli di classe e dei team dei docenti. Tuttavia, considerando che vi è una documentazione clinica del disturbo, la scuola – sulla base di considerazioni psicopedagogiche e didattiche – può a sua discrezione accogliere la richiesta delle famiglie, ove la ritenga fondata.

  • Nei casi di gravi difficoltà rilevate dagli insegnanti, ma senza una documentazione clinica a supporto e senza la diagnosi di disturbo, la scuola deve decidere come procedere. Tali situazioni sono quasi completamente rimesse alla discrezionalità dei docenti. Sono loro che dovranno valutare – basandosi soltanto su considerazioni psicopedagogiche e didattiche, non supportate da alcuna base clinica – se le difficoltà, per quanto gravi e persistenti, possano essere superate o contenute con misure di natura didattica (personalizzazione non formalizzata con un Piano Didattico Personalizzato), ovvero se siano anche necessari strumenti compensativi e misure dispensative. Questo va a impattare sull’ambito della valutazione, per cui, laddove la scuola ritenesse di dover non soltanto personalizzare il percorso didattico, ma anche le modalità di valutazione, allora è consigliabile formalizzare l’intervento, adottando un PDP.

In sintesi: la scuola può intervenire nella personalizzazione secondo i bisogni e la convenienza, attraverso modalità diverse, informali (se si è in presenza di ordinarie difficoltà che ogni alunno può incontrare durante il proprio percorso scolastico) o strutturate (se vi sono difficoltà gravi o veri e propri disturbi), concorrendo in quest’ultimo caso alla formalizzazione di un PDP.

È importante ribadire che non è certo «compito della scuola certificare gli alunni con bisogni educativi speciali, ma individuare quelli per i quali è opportuna e necessaria l’adozione di particolari strategie didattiche».  Inoltre, «anche in presenza di richieste dei genitori accompagnate da diagnosi che però non danno diritto alla certificazione di disabilità o di DSA, il Consiglio di classe è autonomo nel decidere se formulare o non formulare un Piano Didattico Personalizzato, avendo cura di verbalizzare le motivazioni della decisione».

È bene sottolineare che lo scopo di tutte queste iniziative è quello di «offrire maggiori opportunità formative attraverso la flessibilità dei percorsi», senza che questo implichi un abbassamento degli obiettivi e dei livelli di apprendimento.

Il Piano Didattico Personalizzato non va quindi inteso come un ulteriore adempimento burocratico, ma come uno strumento di flessibilità didattica a disposizione dei docenti, i quali avranno autonoma ed esclusiva discrezionalità – senza alcun automatismo dettato da documentazioni cliniche – nel decidere quale percorso didattico intraprendere e anche le più adeguate modalità di valutazione. 


LO SVANTAGGIO SOCIOECONOMICO, LINGUISTICO E CULTURALE

pedine bianche che circondano una pedina rossa

 


C’è chi la definisce la “terza area” dei BES. Riprendendo l’espressione francese “sans-papiers” (che indica le persone senza permessi di soggiorno e documenti di identità), alcuni hanno voluto definire così tutta quella vasta area di alunni che non hanno né certificati né diagnosi, ma sono comunque bisognosi di una speciale attenzione per portare avanti il loro percorso formativo.

Per accompagnare l’introduzione nell’ordinamento scolastico italiano di una possibilità tanto innovativa, la Circolare n. 8 del 2013 suggeriva che tali tipologie di BES dovessero essere individuate «sulla base di elementi oggettivi (come, per esempio, una segnalazione degli operatori dei servizi sociali)», ma subito dopo specificava che tale individuazione potesse essere anche solo fondata su considerazioni di carattere psicopedagogico e didattico.

Approfondiremo questi temi nei capitoli successivi e con esemplificazioni attraverso la descrizione di alcuni casi; in questo articolo ci limiteremo a cercare di delineare i confini e le caratteristiche principali di quest’area relativamente alle cause, alle manifestazioni e alle conseguenze. 


Le cause - Possono essere fatte risalire:

  • Alla famiglia, per motivi di svantaggio socioculturale (basso livello di istruzione dei genitori e delle altre figure parentali, condizioni socioeconomiche e abitative disagiate, scarsi stimoli linguistici e culturali), o di atteggiamenti educativi inadeguati (iperprotettivi, autoritari, permissivi, svalutativi, incoerenti);

  • Al contesto relazionale, per povertà di relazioni offerte, carenze affettive, isolamento ecc.;

  • Alla scuola stessa, per carenze nella struttura e nell’organizzazione (mancanza di spazi e strutture adeguate, tempi e attività rigidi, scarsa formazione dei docenti, rapporti non collaborativi con la famiglia) o nelle metodologie di insegnamento (insegnamento trasmissivo-nozionistico, errata gestione della classe, scarsa competenza relazionale, valutazione selettiva);

  • Al contesto sociale, per provenienza ambientale (famiglie disgregate, contesti poveri, conflittuali, devianti, emarginati ed emarginanti) o culturale (tossicodipendenze, alcolismo, prostituzione, aggressività).

     

 

Le manifestazioni - Possono presentarsi sotto varie forme:

  • Difficoltà di apprendimento: povertà di contenuti cognitivi, carenza di strutture e processi cognitivi, stile di apprendimento non funzionale (mnemonico, scarsamente elaborativo e metariflessivo);

  • Ritardo maturativo (da non confondere con la situazione di difficoltà di apprendimento): bassa autostima, scarsa motivazione, soprattutto intrinseca, immaturità dell’io (inibizione affettiva; scarso controllo emotivo; ansia di separazione, bassa tolleranza della frustrazione), inadeguato stile di attribuzione (attribuzione delle cause degli eventi a fattori esterni indipendenti dal soggetto), senso di impotenza appreso (sia come causa che come effetto dello stile di attribuzione);

  • Apatia: immobilità o riduzione dell’attività, mancanza di curiosità e di interessi, debole capacità di affezionarsi alle persone, alle cose, alle idee, chiusura in se stessi, stanchezza generalizzata;

  • •  Difficoltà relazionali ed emozionali: iper-emotività (reazioni emotive eccessive), disturbi d’ansia (da prestazione, sociale o generalizzata), stati depressivi (tristezza, disistima, totale mancanza di interessi, vuoto profondo, abulia, spesso associata a perdita del sonno e dell’appetito).

    Le conseguenze - Possiamo registrare:

    • Il disagio dell’alunno, ma anche della famiglia e dei docenti;

    • L’insuccesso scolastico fino alla ripetenza e alla dispersione e all’abbandono;

    • Fenomeni di marginalizzazione e di devianza.

      La questione degli alunni stranieri.

      Dopo l’uscita della Direttiva, molti docenti hanno inteso di dover considerare tutti gli alunni stranieri quali “BES”. Già con la Circolare del marzo 2013 era stato chiarito che «per coloro che sperimentano difficoltà derivanti dalla non conoscenza della lingua italiana – per esempio alunni di origine straniera di recente immigrazione e, in specie, coloro che sono entrati nel nostro sistema scolastico nell’ultimo annoè parimenti possibile attivare percorsi individualizzati e personalizzati, oltre che adottare strumenti compensativi e misure dispensative».

      In sostanza, si indicava che anche gli alunni di origine straniera possono aver diritto alle misure previste per altri alunni con BES, tuttavia si circoscriveva il campo di applicazione ad alunni e studenti di recente immigrazione ossia ai neoarrivati in Italia (da cui la sigla NAI, spesso usata in ambito amministrativo). Inoltre, si chiedeva di aver «cura di monitorare l’efficacia degli interventi affinché siano messi in atto per il tempo strettamente necessario.

      Pertanto, a differenza delle situazioni di disturbo documentate da diagnosi, le misure dispensative, nei casi sopra richiamati, avranno carattere transitorio e attinente aspetti didattici, privilegiando dunque le strategie educative e didattiche attraverso percorsi personalizzati, più che strumenti compensativi e misure dispensative» (ibidem).

      Con la Nota ministeriale del 22 novembre 2013 si è ritenuto necessario ribadire che gli interventi a favore degli alunni di cittadinanza non italiana devono essere prettamente di natura linguistica e che non deve esservi un automatismo nel considerarli quali portatori di bisogni educativi speciali. Le espressioni adottate in questo caso nel documento ministeriale sono molto nette,  proprio in quanto mirano a contrastare il fenomeno del labelling, ossia dell’etichettatura.

      Si afferma che essi necessitano «solo in via eccezionale della formalizzazione tramite un Piano Didattico Personalizzato. Si tratta soprattutto – ma non solo – di quegli alunni neo arrivati in Italia, ultratredicenni, provenienti da Paesi di lingua non latina (stimati nel numero di circa 5 000, a fronte di oltre 750 000 alunni di cittadinanza non italiana; dati MIUR) ovvero ove siano chiamate in causa altre problematiche.

      Non deve tuttavia costituire elemento discriminante (o addirittura discriminatorio) la provenienza da altro Paese e la mancanza della cittadinanza italiana. Come detto, tali interventi dovrebbero avere comunque natura transitoria» (Nota 2563/2013, p. 3). Infatti, secondo stime statistiche recenti, gli alunni neo arrivati in Italia (NAI) sono circa 14 000 nel primo ciclo e altrettanti nel secondo ciclo (Fondazione ISMU e MIUR, 2014), dove – come sappiamo – si palesano maggiori difficoltà nell’apprendimento della lingua.

      Evidentemente, le difficoltà saranno maggiori per ragazzi provenienti da Paesi extraeuropei, e in particolar modo dall’area asiatica e nordafricana. Quindi, all’interno del sottoinsieme dei neo arrivati in Italia, gli ultratredicenni potenziali portatori di bisogni educativi speciali si stimano nel numero di circa 5 000, ossia in media di uno ogni due istituzioni scolastiche


      I BAMBINI “GIFTED”


      bambino che da un regalo a una bambina

      All’interno della normativa sui BES un focus è poi dedicato ai I BAMBINI “GIFTED”.Si chiamano “gifted children”, bambini plusdotati, o anche ad alto o altissimo potenziale cognitivo; sono bambini che hanno doti intellettive superiori alla norma.

      Ricordiamo che l’intelligenza viene stimata con strumenti diagnostici, tra cui il più noto è la Scala WISC (Wechsler Intelligence Scale for Children).Il punteggio standard è fissato a un valore pari a 100. Sopra il valore di 115 si parla di alto potenziale, mentre 130 è la soglia di plusdotazione intellettiva. Secondo le ricerche elaborate dall’Università di Pavia, i bambini con potenziale intellettivo superiore a 115 si collocano in un range stimabile attorno al 5%; mentre i bambini “gifted”, con potenziale intellettivo superiore a 130, sarebbero pari al 2,14% della popolazione scolastica.

      Si tratta, quindi, di oltre 170 000 bambini. Molto spesso, anche per carenza di adeguate strategie didattiche, questi bambini finiscono per incorrere nell’insuccesso scolastico.

      Alcuni di loro sono persino individuati come soggetti con iperattività e deficit di attenzione (ADHD ). Infatti, potendo risolvere più velocemente i compiti loro assegnati, questi bambini finiscono per avere a loro disposizione un tempo maggiore rispetto ad altri alunni e sono quindi maggiormente soggetti a distrazione; evidentemente, la non adeguatezza di tali compiti finisce anche per determinare disaffezione e disinteresse per le attività proposte.

      Tutto ciò, può condurre a fenomeni molto negativi, codificati come “underachievement”, ossia come discrepanza tra i risultati scolastici e i potenziali intellettivi di questi bambini, che in taluni casi arrivano ad abbandonare gli studi (si parla allora di “gifted underachievers”). Per questi motivi, da più parti – famiglie e mondo accademico – vengono sollecitate specifiche misure di intervento sia in ambito didattico che normativo.

       






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